domenica 18 novembre 2012

l'affanno della felicità

"A volte tu somigli in qualche gesto a una persona che mi voleva bene." Lo disse piano, sotto la soglia di rumore del diesel che andava. Io arrossii come se l'avesse gridato al mondo da un altoparlante. Lo disse senza dover aprire gli occhi. "Tu gliene volevi?", e Caia fece un piccolissimo sì di testa.

Andammo verso la secca di Capri. Il viaggio durava, il chiasso del motore l'aiutava a dire. Avevo fatto la punta all'orecchio per sentire la frequenza della sua voce, l'avrei sentita anche in una burrasca. Da poppa non si poteva vedere che stavamo parlando.

Io rispondevo senza guardarla, fissando l'avanti, dicendo parole per il vento. Ci fu un'onda più alta, la vidi arrivare e capii che le avrebbe fatto sbattere un po' la testa sul legno, così al momento all'impennata di prua infilai la mano tra la sua nuca e la barca, attutendo il colpo. La ritirai subito. Caia mi guardò da sotto, faccia seria, da bambina che sta a una finestra e aspetta un ritorno. Vedeva qualcosa da lontano, da dietro di me, una mano che le reggeva la nuca chissà quanti anni prima. Tenni i suoi occhi in faccia, pensai che mi vedeva contro il cielo senza nessuno in torno, senza terra.

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"Perché hai detto che sono vecchio?", chiesi e mi accorsi che mi era uscito un timbro grave in gola. "Sei vecchio all'improvviso in una maniera meravigliosa, sei qualcuno venuto da lontano come me, che si trova sbarcato su una nuova terra e ha i capelli bianchi e sta pensando a come se la potrà cavare." 

Il morso della murena aveva lasciato un disegno di buchi, una lettera chiara sulla pelle scurita. Teneva la sua mano proprio lì e quello era il gesto più intimo che mi era stato rivolto da una donna. Toccava la superficie di un dolore, una presa pulita capace di richiamarlo come di attutirlo. Io ci sono, diceva la sua mano sulla ferita, per tutta una musica ti accompagno lontano e ti tengo il dolore nella mano.

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[...] perché gli piaceva ridere e sorridere delle cose buffe e buffone che fanno le persone quando fanno sul serio.

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"Non sono buono a reggerti la mano, già te la sporco. Sono cambiato, non so neppure come. Ho dei pensieri da uomo, avere figli, lavorare, lasciare gli studi. Mi è venuta fretta d'imparare lontano, non posso venirti a prendere sotto scuola con un motorino che non ho e non desidero. Non posso portarti alle feste il sabato, farmi conoscere dai tuoi genitori come il tuo ragazzo, sentire che dicono sì, è un bravo ragazzo. Non sono un bravo ragazzo.

Solo poco tempo fa non lo sapevo così bene."

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"Ti ho lasciato un segno di grasso sul palmo, provo a levartelo." Tra gli scogli dell'istmo c'era qualche pietra pomice, scesi a prenderne una. Le strofinai il palmo, piano, le si velarono gli occhi, "Non fa male?", "No". "Allora non essere infelice." "Non sono infelice", caddero le due prime la crime, che vengono a coppie e da qui i poeti hanno imparato le rime.

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Mi guardava leale, si esponeva in faccia a uno che poteva ferirla. Ero ancora chiuso? Per non imbarazzarla abbassai gli occhi. "Quando questo vento smetterà verrò a cercarti. Avrò le scarpe ai piedi e i capelli lavati in acqua dolce. Vengo a cercarti in città. Mi ha detto Nicola che non bisogna fare progetti quando c'è lo scirocco." Lo dissi per bisogno di credere in un mio seguito, oltre la notte, anche se non immaginavo niente di me al di là del fuoco. Lì si era ispessito un confine. Chissà se sono così i pensieri degli animali, ciechi di futuro, intenti nel rinnovo breve del giorno. Chissà se sono così i pensieri dei prigionieri. Il vento ci costrinse a addossarci a un muro.

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"Niente progetti, ma questa è una promessa? Se lo è io voglio aspettare la fine dello scirocco." Sorrisi e finalmente la guardai. Era l'affanno della felicità.

Feci un brusco sì con la testa, poi lo dissi, un sì certo e grave. E lei si spinse in avanti per un bacio, io spostai un poco la guancia e lei mi centrò mezza bocca, veloce, diretta, com'erano le sue parole. Mi venne il pensiero che una persona così franca aveva anche baci diritti, incapaci di piegarsi su una guancia.


Erri De Luca, Tu, mio

giovedì 8 novembre 2012

quanto são insuficientes as palavras

Pedro Orce contempla as suas velhas mãos, não são velhas, não, saíram duma operação alquímica, tornaram-se imortais, ainda que o resto do seu corpo tenha de morrer.

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Os seus órgãos genitais, com perdão da crueza anatómica, eram afinal a expressão, simultaneamente reduzida e ampliada, da mecânica expulsória do universo, toda essa maquinaria que procede por extracção, esse nada que vai ser tudo, essa ininterrupta passagem do pequeno ao grande, do finito ao infinito. Neste ponto, é bom de ver, os glosadores e hermeneutas perdiam o pé, nem é para admirar, porque de mais nos tem ensinado a experiência quanto são insuficientes as palavras à medida que nos aproximamos da fronteira do inefável, queremos dizer amor e não nos chega a língua, queremos dizer quero e dizemos não posso, queremos pronunciar a palavra final e percebemos que já tínhamos voltado ao princípio.

José Saramago, A jangada de pedra